Con sentenza n. 22390 del 24 maggio 2023 la Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, ha approfondito il tema del concorso tra i reati di corruzione propria e impropria.
La vicenda muove dal processo a carico del direttore di varie residenze sanitarie per anziani, imputato per il reato di omicidio colposo perché, omettendo sistematicamente di adottare precauzioni idonee a prevenire la diffusione del Covid-19 all’interno delle strutture (ad esempio facendo lavorare operatori positivi al virus), causava la malattia di moltissimi ospiti, alcuni dei quali decedevano in conseguenza al contagio.
Nel corso delle indagini preliminari, tramite intercettazioni telefoniche, emergeva la responsabilità penale di un luogotenente della Guardia di Finanza, che, a fronte della corresponsione di cospicue somme di denaro, acquisiva informazioni su eventuali indagini e influiva sui controlli delle strutture.
Il luogotenente veniva quindi indagato per i reati di corruzione propria ex art. 319 c.p. (ossia corruzione volta compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio) e corruzione impropria ex art. 318 c.p. (ossia corruzione per il compimento di atti d’ufficio).
In tale circostanza, ha precisato la Corte, l’univocità delle condotte fa sì che il reato di cui all’art. 318 c.p. sia riassorbito nel più ampio paradigma della corruzione propria ex art. 319 c.p., da intendersi quale delitto permanente.
Le singole corresponsioni di denaro “sinallagmaticamente connesse” al compimento di atti contrari e conformi ai doveri d’ufficio, infatti, si configurano come momenti consumativi dell’unico reato di corruzione propria, con la conseguenza che in tali ipotesi sussista soltanto il reato previsto e punito dall’art. 319 c.p..