La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11248/2023, riconosce una responsabilità attenuata al datore di lavoro che aveva licenziato una dipendente per un giudizio medico di inidoneità sopravvenuta rivelatosi poi errato.
Il caso prende le mosse da un giudizio di inidoneità sopravvenuta alle mansioni di fisioterapista emesso da una struttura sanitaria pubblica. Il datore di lavoro aveva disposto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo della lavoratrice, in assenza di altre mansioni compatibili con il suo stato di salute a cui adibirla.
Il giudizio emesso dalla struttura sanitaria pubblica si rivelava, però, errato nella sua valutazione. Pertanto, la lavoratrice ricorreva in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la relativa reintegra sul posto di lavoro.
La Suprema Corte, però, ribadisce la legittimità del licenziamento operato. Il datore di lavoro aveva, infatti, adeguatamente provato che il proprio inadempimento era derivato da un’impossibilità della prestazione ad esso non imputabile. Invero, il giudizio di inidoneità sopravvenuta non era stato emesso dal Medico del lavoro, bensì da una struttura sanitaria pubblica certificante terza ed imparziale. Dunque, il datore di lavoro non poteva disattendere le sue valutazioni ed adibire la lavoratrice a mansioni per cui era stata dichiarata inidonea. E ciò al fine di non causare irreparabili danni alla salute in capo alla dipendente. Ulteriormente, il datore di lavoro aveva adempiuto al proprio onere probatorio. Aveva, infatti, dimostrato che, all’epoca del licenziamento, non vi erano altre mansioni, anche inferiori, a cui adibire la lavoratrice compatibili con il suo quadro clinico.
Pertanto, la Suprema Corte accoglie solo parzialmente il ricorso della lavoratrice, rigettando la richiesta di reintegra e condannando la datrice di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria.