Una lavoratrice impiegata in una Banca non veniva confermata a tempo indeterminato al termine del periodo di apprendistato professionalizzante, risultando l’unica tra altri 200 lavoratori a vedersi comunicato il recesso da parte del datore di lavoro. La ex dipendente agiva in giudizio ritenendo che quanto accaduto fosse determinato esclusivamente da una condotta discriminatoria nei suoi confronti, originata dalle due gravidanze intercorse durante il rapporto di lavoro.
Il Tribunale accoglieva le ragioni della lavoratrice, condannando il datore di lavoro alla sua reintegrazione in servizio. La Corte d’Appello, al contrario, riformava la sentenza ritenendo che la ricorrente non avesse fornito presunzioni precise e concordanti idonee a comprovare il carattere discriminatorio della condotta datoriale.
Sulla vicenda in esame è intervenuta anche la Corte di Cassazione con ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023. La Suprema Corte ritiene che, ai sensi dell’art. 40 del D.lgs. n. 198/2006, deve configurarsi un onere probatorio attenuato in capo alla lavoratrice che sostiene di aver subito una condotta discriminatoria. Più precisamente, la ricorrente deve provare la sussistenza di una presunzione di discriminazione, data dall’esistenza di un fattore tipico di rischio in suo capo e dall’aver subito un trattamento svantaggioso in ragione di questo fattore. Tali prove possono essere fornite anche sulla base di dati statistici. Spetterà poi al datore di lavoro dimostrare le circostanze univoche, gravi, precise e concordanti idonee ad escludere il carattere discriminatorio della propria condotta.
Ulteriormente, secondo i Giudici di legittimità, anche le condotte che hanno di per sé un carattere neutro, come il recesso da un contratto di lavoro, possono essere considerate illecite se valutate alla luce di un più complessivo quadro discriminatorio.
Conseguentemente, la Corte di Cassazione accoglie le ragioni della lavoratrice, cassando con rinvio la sentenza impugnata della Corte d’Appello.